Ciò che i relatori dell’articolo 9 avevano in mente era, innanzitutto, la cultura umanistica e segnatamente la storia sempre maestra: di qui, forse, la necessità di bilanciare nel primo comma dell’articolo 9 il riferimento alla ricerca scientifica e tecnica voluto dagli ingegneri Firrao e Nobile e caldeggiato dal fisico Antonio Pignedoli.
Bisogna domandarsi: la Repubblica democratica italiana provvede ai suoi ricercatori come le ha imposto la Costituzione?
Prima di rispondere, proviamo a consultare i numeri di un esodo diventato significativo negli anni. Gli italiani che si trasferiscono all’estero dal 2006 al 2020 sono aumentati del +76,6%. Secondo i dati ISTAT nel 2018 hanno lasciato il paese in 29mila (+6% sul decennio, ma ben il 45% in più negli ultimi 5 anni), la maggior parte dei quali cerca fortuna nel Regno Unito (21mila).
I dati allarmanti hanno attirato l’attenzione del presidente della Camera Roberto Fico: è proprio la fuga dei cervelli che “impoverisce drammaticamente il capitale umano del nostro Paese. E ne mette a rischio il futuro. Dobbiamo creare le condizioni – ha detto – nel mercato del lavoro come nella ricerca e nelle università, per incentivare i nostri talenti a rimanere o a rientrare dopo esperienze qualificanti all’estero”, ha aggiunto.
Emerge quindi “L’esigenza di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei progetti di vita dei giovani. Una specifica considerazione merita anche il sistematico deflusso di giovani dai 20 ai 34 anni con livello di istruzione medio-alto dalle regioni del Mezzogiorno verso il Centro-nord e dall’Italia verso l’estero“.
Anche durante questo terribile periodo di pandemia da C19 abbiamo appreso a caro prezzo cosa significhi aver definanziato con il Bilancio dello Stato la ricerca e non aver saputo trattenere gli scienziati che, invece un sistema sanitario estero ha saputo attirare con trattamenti e condizioni migliori.
Il Paese investe 164 mila euro per formare un laureato e 228 mila euro per un dottore di ricerca, investimenti di cui beneficiano sempre più altri Paesi. La fuoriuscita è confermata anno dopo anno, un trend che non si arresta. È questa la misura di quanto un Paese stia smarrendo sia la visione del proprio futuro sia la capacità stessa di pensare e progettare il futuro.
Il grande timore che assale – nell’apprendere di questo che non è un semplice problema, ma è il problema del nostro paese – è che l’Italia si stia avviando pian piano al declino.
È quello che i padri costituenti non avrebbero mai voluto vedere nel momento in cui con grande lungimiranza posero le basi nella legge di massimo grado, con la previsione cogente in capo allo Stato inserita nell’art. 9, per evitarlo e mettendoci in guardia con l’avviso che:
La ricerca scientifica si promuove sostenendo i ricercatori.
Gli scienziati che se ne vanno e che l’Italia perde dovrà finire una volta per sempre. Il fatto che l’Italia sia una Repubblica fondata (anche) sulla ricerca «scientifica e tecnica», cioè sulla ricerca di base (in tutte le sue discipline) e su quella applicata, si deve proprio a questo principio fondamentale contenuto nell’art. 9.
Per comprendere le implicazioni concrete di tale previsione normativa occorre ricordare un intervento interessante in Assemblea Costituente tenuto, il 22 aprile 1947 durante la discussione sulla scuola, dal fisico Antonio Pignedoli il quale con grande determinazione propose che la Costituzione obbligasse la Repubblica a promuovere la ricerca scientifica.
L’argomento da cui egli partì è di bruciante e amara attualità anche per noi oggi:
“Il doloroso andarsene degli scienziati italiani, onorevoli colleghi, è un altro punto che voglio richiamare all’Assemblea Costituente italiana. Gli scienziati se ne vanno dall’Italia per ragioni di trattamento, per ragioni proprio inerenti alla possibilità di vivere. E qui non c’è nessuno spunto polemico; qui siamo tutti uniti in una grande considerazione di Patria e di giustizia umana. Gli scienziati se ne vanno, ma il doloroso calvario degli scienziati, che se ne vanno all’estero e che la Patria perde, dovrà essere finito una volta per sempre. La Repubblica democratica italiana dovrà provvedere ai suoi ricercatori, dovrà provvedere a questi suoi lavoratori della mente; dovrà provvedere a questi suoi figli più eletti (AC, Assemblea, 22 aprile 1947, p. 3201)”.
Nella conclusione del suo discorso Pignedoli ribadì fortemente convinto che:
“Dovrà finire dunque questo esodo e la Repubblica italiana dovrà impegnarsi a lottare, non dico a promettere di risolvere con faciloneria il problema, ma dovrà impegnarsi a far di tutto perché spiriti eletti non debbano emigrare lontano. Per questo io mi sono permesso, onorevoli colleghi — e sto finendo — mi sono permesso di presentare un emendamento. Ho visto un altro emendamento, successivo, proposto dall’illustre Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed un altro ancora presentato da altri onorevoli colleghi, mi pare dal professor Firrao, dell’Università di Napoli, e dall’onorevole generale Nobile. Ma mi sono permesso di mantenere il mio primo emendamento, che è leggermente diverso. Esso è così concepito: «La Repubblica protegge e promuove con ogni possibile aiuto la creazione artistica e la ricerca scientifica». Esso non è in contrasto con la prima parte dell’articolo 27, in cui si dichiara che l’arte e la scienza sono libere. L’arte e la scienza sono libere per la loro stessa natura; noi lo sappiamo bene! Ma l’asserire, come comma aggiuntivo, che la Repubblica protegge e promuove la creazione artistica e la ricerca scientifica non è, evidentemente, una negazione del primo comma dell’articolo, ma anzi, una integrazione, direi necessaria, del comma stesso”.
Di sicuro il fisico Pignedoli aveva in mente l’esilio di Enrico Fermi e di tanti altri scienziati italiani, determinato delle leggi razziali e della persecuzione fasciste, ma nel suo intervento che ci riguarda come paese tuttora egli parla evidentemente di ciò che oggi chiamiamo la «fuga dei cervelli», e cioè di un esodo dalle proporzioni gigantesche di ricercatori dovuto all’assenza di occasioni e condizioni favorevoli al lavoro scientifico. Un esodo che finora la nostra Repubblica, constatiamo con rammarico, non è riuscita a fermare.
L’impegno che Pignedoli voleva fosse assunto dalla Repubblica appena nata era proprio quello di «provvedere» ai ricercatori: di «fare di tutto» perché essi non fossero costretti ad andarsene. Una prospettiva, questa, che rende assai concreto e tangibile il precetto del primo comma dell’articolo 9 – nella cui formulazione finale Pignedoli peraltro si riconobbe pienamente e generosamente condivise, ritirando il proprio emendamento – ovvero che promuovere lo sviluppo della ricerca significa provvedere ai ricercatori.
La Repubblica «tutela».
Di fronte al confronto serrato – ma leale e sincero – che ha contraddistinto il dibattito alla Costituente (dove si alternano i concetti anche di «vigilanza» e «protezione»), Tristano Codignola affermò perentorio: «Lo Stato non protegge, tutela» (AC, Assemblea, 30 aprile 1947, p. 3419). Con ogni probabilità Codignola aveva nelle orecchie e nella mente le parole della legge 1089 del 1939, intitolata proprio alla «Tutela delle cose d’interesse artistico e storico».
L’assemblea adottò questo punto di vista e fu un bene poiché se il concetto di ‘vigilanza’ può risultare passivo e quello di ‘protezione’ ha in sé qualcosa che fa pensare più a un fenomeno episodico come evento (si pensi alla Protezione Civile), la ‘tutela’ lungi dall’essere emergenziale, è sistematica e preventiva, in quanto ha lo scopo di rendere sicuro il patrimonio e di consegnarlo inalterato alle generazioni future.
Così com’è così dov’è. E’ questa la speranza che vogliamo coltivare anche noi ancora oggi, animati da quello stesso spirito che animò i partecipanti dell’Assemblea Costituente ai quali dobbiamo essere grati. Un generazione che si preoccupò di far inserire in Italia la cultura e la ricerca nel luogo più alto di garanzia istituzionale, la Costituzione, per accordarle il massimo livello di importanza e di assicurazione.