La mimosa è definita come una pianta pioniera, una pianta che riesce a insediarsi per prima su terreni nuovi, come quelli derivati dalle frane o dalla lava, le dune costiere o i terreni in cui le piante siano state bruciate da incendi. La mimosa arriva per prima dove ci sono stati danni e prepara il terreno. È una pianta molto resistente, che si adatta anche a suoli poco profondi o poveri di sostanze capaci di nutrirla. Quando arriva però modifica il terreno e lo rende più adatto per tutte le altre specie più esigenti di lei che si insedieranno successivamente.
“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, così cantavano i Giganti negli anni novanta. Negli anni settanta Sergio Endrigo, ispirato da Gianni Rodari, cantava invece “ci vuole un fiore”.
Diversi anni fa qualcuno mi ha detto quando una donna vede un bicchiere vuoto subito ci mette dentro un fiore.
Un fiore è sempre collegato ad altro: a un terreno, al suo stelo, alla mano che lo coglie, al vaso che lo contiene, disperso nell’ambiente rientra nel ciclo vitale.
A cosa serve un fiore?
A fare un frutto, un albero, una casa, un tavolo, un bosco, un seme. Il fiore è emblema del ciclo della vita, è un tutt’uno con l’ambiente.
Siamo parte dello stesso pianeta, respiriamo la stessa aria, beviamo la stessa acqua, ogni nostra azione, come quella di un fiore, produce effetti benefici o catastrofici. Siamo legati a qualcosa, sempre, mai separati da nulla. Come esseri umani nella nostra continua e inevitabile connessione con quelli che sono non-umani (naturali e tecnici) produciamo (più spesso) danni o (a volte) effetti benefici. Viviamo immersi in connessioni che non vediamo, dipendiamo da ogni cosa che ci circonda, il nostro corpo non potrebbe vivere se non connesso alle fonti di energia in cui è immerso, dalla luce, al cibo alla tecnica.
Siamo una minuta parte di ecosistemi fragili
Pensiamo di vivere come entità separate, distribuite singolarmente nello spazio e nel tempo. Siamo centrati su noi stessi come umani pensandoci centrali e unici, ma d’improvviso abbiamo scoperto che per vivere dobbiamo includere nel nostro mondo tante altre cose (anche i microbi, i virus, gli animali e tutti gli oggetti tecnici) con cui entriamo in relazione.
Siamo una minuta parte di ecosistemi fragili e vulnerabili che si tengono insieme in modi traballanti. Abbiamo allora dovuto assumere una prospettiva più ampia, capace di accogliere connessioni inedite che hanno ridefinito il tempo e lo spazio; che ci hanno messo a distanza per poter continuare a stare insieme. Dobbiamo allora divenire capaci di guardare a tutti gli eventi come momenti relazionali e connessi – non ci sono cause – siamo solo effetti come la catena della vita di un fiore. Non c’è un prima da ristabilire, siamo nei guai, lo siamo sempre stati.
Il “noi” e la pandemia
Con la pandemia abbiamo imparato che “il batter d’ali di una farfalla in Brasile, può provocare un tornado in Texas”. Esistiamo soltanto all’interno di fenomeni relazionali aggrovigliati e intricati e contribuiamo fortemente a perturbare equilibri locali e globali creando catene dannose che concorrono – come abbiamo sperimentato – all’innesco di fenomeni “virali” che si muovono velocemente dal piano locale a quello globale. E allora? Forse dobbiamo imparare a vivere in un pianeta infetto, essere pienamente consapevoli di vivere cercando nuovi adattamenti non centrati solo sull’umano.
Noi siamo il fiore.