“Che ci faccio qui? Si domanda ripetutamente nei suoi viaggi e nei suoi libri Bruce Chatwin, forse l’ultimo grande viaggiatore prima della fine dei grandi viaggi e prima che il mondo globale rendesse il Viaggio un’esperienza del tutto diversa dal passato. Che ci faccio qui? Si domandava, e aveva compiuto spostamenti in luoghi lontani, in mondi ancora diversi dal suo.
Che ci faccio qui? Continuo a domandarmi in questi miei viaggi non viaggi, in questi spostamenti in luoghi non molto lontani da quelli in cui sono nato e cresciuto. Viaggi di poche centinaia di chilometri, ma non meno faticosi di quelli lunghi e lontani del passato. Perché oggi il viaggio più faticoso coincide spesso con il restare. Il cammino più lungo è quello che porta nelle profondità della propria terra e della propria anima. Perché oggi restare è forse l’esercizio più spaesante e più fondante che si possa compiere.” (Vito Teti, 2004, Il senso dei luoghi)
La Calabria è una terra storicamente caratterizzata da continui movimenti di persone. Vito Teti, antropologo di San Nicola da Crissa (VV), racconta come la massiccia emigrazione dei calabresi ha cambiato irrimediabilmente non solo chi parte, ma anche chi resta.
“Si è sostenuto che con l’emigrazione finisce l’antica identità dei calabresi, chiusi arroccati, isolati. In realtà è proprio con l’emigrazione che nasce la nuova identità dei calabresi. La partenza, la fuga, il ritorno, la nostalgia, lo spaesamento, la lontananza, l’essere e il sentirsi qui e altrove sono tratti antropologici dei calabresi dell’oggi, di quelli rimasti e quelli partiti”.
Lo spopolamento e l’abbandono sono una costante della nostra storia. Catastrofi naturali e invasioni nel corso dei secoli hanno portato a continui rimescolamenti interni: pensiamo allo spopolamento delle coste verso gli interni a partire dal periodo tardo bizantino per sfuggire alle incursioni saracene e turche, ed al movimento inverso (ed ancora in corso) che occorre dalla fine dell’800. Sono innumerevoli i paesi arroccati sulle colline affacciate sullo Jonio che hanno visto nascere il proprio corrispettivo lungo il corso della SS106, la quale assume oggi l’aspetto di una sterminata periferia affacciata su spiagge e scogliere mozzafiato. Sono innumerevoli i paesi che si stanno spopolando, portando ad un’incredibile perdita dal punto di vista umano e del patrimonio storico e culturale.
Camminare tra le rovine può essere un modo per riscoprire chi siamo. Ma ciò non deve cadere nell’adozione di un atteggiamento passivo, che spesso porta a mitizzare un passato che in fin dei conti era caratterizzato da miseria diffusa ed ingiustizie.
Delle guide in Aspromonte mi hanno raccontato come per loro camminare sia un esigenza che in parte nasce dalla voglia di far conoscere e riscattare i propri luoghi, affinché essi non siano più associati solo alla ‘ndrangheta ed alla miseria.
Per me camminare tra le rovine vuol dire non solo riscoprire la storia del mio territorio, tentare di tracciare i movimenti di persone, idee, pratiche, oggetti, ma è anche un esercizio per provare a comprendere cosa spinge le persone a partire, restare, tornare, e cercare idee e motivazioni per provare a preservare il nostro patrimonio e magari metterlo al centro di un modello di sviluppo locale sostenibile. Camminare tra le rovine è anche un esercizio di resistenza a quello che Pasolini definiva il potere omologante della civiltà dei consumi, la quale più del fascismo era riuscita ad uniformare gli italiani, distruggendo le varie realtà particolari che l’Italia ha storicamente prodotto nel corso dei secoli. Ma perché ciò accada il cammino non deve essere un’esperienza di consumo postmoderna. Il cammino deve essere lento, ma attivo, bisogna interagire con i luoghi, le cose, le persone, conoscerli, cercare di comprenderli, riscoprire i nostri legami e crearne di nuovi, riscoprire le nostre storie, magari raccontarle, non dimenticarle.
Nel Dicembre 2019 con alcuni amici ho visitato Zungri, un paese in provincia di Vibo Valentia, definito una piccola Matera per via delle costruzioni ricavate nella roccia nelle quali hanno trovato rifugio monaci basiliani e contadini. Zungri è uno dei tanti paesi in via di spopolamento. La zona è abitata da tempi antichissimi e da queste parti si sarebbe svolta la mitologica storia di Proserpina.
A pochi chilometri da Zungri, in mezzo a campi ed uliveti, sorgono le due Papaglionti, il vecchio ed il nuovo abitato. Della vecchia Papaglionti, il cui esodo inizia con l’alluvione del ‘52 e si conclude negli anni ’80 con lo straripamento della fiumara Murria, non rimangono che rovine. La bella chiesa di San Pantaleone, che era stata ristrutturata negli anni ’30 coi soldi degli emigrati, è diroccata e così buona parte delle vecchie abitazioni.
Un dettaglio che ci ha colpiti è stato il vedere i muri di molte case contrassegnati con dei SI (le case non eccessivamente dirute) o dei NO (le case più pericolanti). Dentro uno degli stabili dalle condizioni “migliori” vi erano dei disegni sui muri, in cui erano rappresentate le sagome o i volti di alcune persone, spesso sorridenti, con affianco dei nomi dall’aria Africana (Fatou, Modou). Non ho parlato con quelle persone, né con nessuno che abbia potuto vederli, non so chi siano, le loro storie, ma ho immaginato la loro voglia di lasciare un segno del loro passaggio. Ho immaginato che fossero dei migranti sopravvissuti alla Libia o alla traversata del Mediterraneo, e finiti a lavorare nelle campagne vibonesi, magari portati ad alloggiare da qualche caporale nei ruderi delle abitazioni che mezzo secolo fa erano abitate da braccianti calabresi. Nuova gente che viene ad abitare luoghi abbandonati, a volte per periodi molto brevi, a volte no.
Il tema della presenza dei migranti per ripopolare i vecchi borghi meridionali in via di spopolamento è presente nel dibattito pubblico ormai da decenni. L’esperienza che ha avuto più successo è senza dubbio quella di Riace, nonostante i ripetuti attacchi che sta ricevendo da parte delle istituzioni. Dopo una serie di eventi scaturiti dallo sbarco di alcuni profughi curdi vicino Punta Stilo alla fine degli ani ’90 (ci ricorda Vito Teti che paradossalmente proprio da queste parti ad inizio ‘800 avvenne l’ultima delle incursioni turche sulle coste calabresi), Mimmo Lucano ed altri proposero di utilizzare a scopo di accoglienza le case lasciate abbandonate da decenni da cittadini di Riace superiore partiti per le Americhe o per l’Australia. Molti emigrati accettarono e nuova linfa inizio a scorrere per le vie del borgo. Molte case in rovina vengono ristrutturate e sembra fermarsi l’inevitabile emorragia verso la marina, o verso luoghi ancora più lontani. Il borgo si ripopola e nascono attività, studiosi, turisti, curiosi, attivisti iniziano a recarsi a Riace con sempre maggior frequenza. Inoltre alcuni servizi che erano stati tagliati in virtù del decremento demografico, come le Poste, vengono riaperti. Certo non tutto è rose e fiori e come in ogni comunità vi sono conflitti e dissapori.
Il paese si è riempito di murales. Uno in particolare mi ha colpito: rappresenta una donna africana che piange per la partenza dei suoi figli e sullo sfondo l’ombra di una famiglia calabrese che guarda una nave partire per Novaiorche.
Quando sono andato a Riace nell’Agosto 2020 la situazione non era delle migliori: l’esperienza era sotto attacco per via del processo a Lucano, la sospensione dei finanziamenti SPRAR, il nuovo sindaco leghista. Quest’ultimo aveva fatto sostituire la targa all’ingresso di Riace Superiore che recitava “Paese dell’accoglienza” con una targa con scritto “Paese dei Santi Medici e Martiri Cosimo e Damiano”, forse ignorando che i santi protettori del paese erano dei medici provenienti dalla Siria che giravano per il Mediterraneo e curavano i bisognosi senza chiedere nulla in cambio. Il giorno dei Santi cade il 26 Settembre ed è la festa più importante del paese: da tradizione nei giorni a ridosso della festa i Riacesi ospitano i pellegrini provenienti da buona parte della Calabria, per onorare l’insegnamento di solidarietà dei santi; è anche la festa dei Rom e Sinti che in tale occasione si recano al paese dove cantano e ballano. Ora Riace Superiore si sta parzialmente nuovamente vuotando, molti migranti sono andati via, alcuni al Nord Italia, altri al Nord Europa, altri sono finiti nel ghetto di San Ferdinando, un vero e proprio bacino di manodopera per la ‘ndrangheta, altri chissà dove. Ma altri sono rimasti, imparano mestieri, aprono botteghe e forse continueranno a far parte della nostra storia. Apprendono i saperi del luogo, e portano il proprio. Come accade da millenni.
Gente che va, gente che viene, gente che torna. La Calabria muta ed evolve assieme alla gente che la attraversa. Sono 10 anni che sono via dalla Calabria, facendovi ritorno non appena ne ho possibilità. Non so se l’esperienza della partenza ha fatto nascere in me un particolare attaccamento a questa terra, ma so che è con consapevole volontà che voglio camminare tra le sue rovine e tornare a vivere questi luoghi, i più vicini e i più faticosi.