Émigre è un termine francese utilizzato per designare una persona emigrata dal suo Paese, sebbene abbia connotazioni specificatamente politiche e si riferisca a un esilio volontario non determinato da fattori strettamente economici. Il fulcro di Emigre è la ridondanza e il vagabondare: entrambe qualità positive come il diario prodotto da giovani migratori e con essi le loro storie.
In questa rubrica si scriverà in prima persona cercando di valorizzare ogni gesto e ogni azione per trarne ricchezza collettiva. Oggi più che mai abbiamo bisogno di nuove prospettive da cui guardare il mondo. Per farlo dobbiamo dotarci di tecniche che permettano di non sentirsi disarmati di fronte a scenari particolarmente complessi. Le tensioni che stanno attraversando la contemporaneità non rappresentano una scossa di modesta entità e di breve durata, ma un vero e proprio sconquasso che è destinato a sconvolgere – nella forma della metamorfosi – così come la definisce Ulrich Beck nel suo libro Metamorfosi del mondo.
Ci sono storie che riescono a uscire dalle pagine, dialogando con lo spazio che circonda il testo, fino ad arrivare al mondo intero. Ci sono storie che riescono a coniugare la necessità della finzione con la potenza montante del presente, della vita quotidiana che pulsa. In questo ho personalmente sempre migrato, alla ricerca di qualcosa che mi mancava. È un modo di prendersi cura. Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Abbiamo bisogno di costituire un “noi” per abitare una casa comune.
Un nuovo spazio condiviso
Alla fine anche io ho trovato il mio spazio condiviso. Una città diversa da quella in cui sono nato è diventata la mia dimora altra. C’è poi la città che è il mio cassetto dei ricordi, dove vive la mia famiglia. Mia madre, mio padre, mia sorella e tutto quello che rappresenta la mia fanciullezza, il tempo passato e che ora invece rappresentano la mia maturità. Ho avviato un progetto riflessivo per il mio lavoro di docente: “il design deve restituire o dare agli strumenti e alle cose quella carica di sacralità per la quale gli uomini possano uscire dall’automatismo mortale e rientrare nel rito, “come sosteneva Ettore Sottsass.
«Un’immagine è più di un’immagine e a volte più della cosa stessa di cui è l’immagine», così sosteneva Paul VALÈRY. Ciò che posso chiamare presente. Il linguaggio figurato è il mediatore tra l’uomo e il suo mondo, tra la natura e la cultura. Fare il fondo, osservare dove la linea d’orizzonte si lascia vedere tra i riflessi della luce, fa di un lavoro artistico quel senso d’attesa.
Il “paesaggio” è di fondo, sta lì come se si comprimesse tra il desiderio e il favore. È un gesto, un segno lasciato evanescente nel tentativo di raccogliere un punto di vista. Quest’attesa definisce un luogo, un posto dove fermare lo sguardo e tracciare quel ponte che fa avvicinare le due possibilità. Paesaggi di fondo, ovvero la comprensione dell’attesa. Essere contemporanei, dunque, significa essere in grado di percepire il buio del presente. Ciò vuol dire che riuscire a vedere il proprio tempo non è qualcosa di scontato, ma è il frutto di un’operazione di pensiero. Il segno/gesto che marca il vuoto nella pittura. Leggerezza, impalpabilità e silenzio. Tutto ciò disarma. Sapere che le immagini rivelano, ingrandite, alcune parti del nostro io diventa importante per molti versi, ma anche irrilevante per certi altri. Disegni ordinati come un ritratto dell’io, come di fronte a uno specchio il quale diventa finestra da cui osservo luoghi e personalità che formano l’obbligatorietà del tempo, ma anche la possibilità di uscire fuori dalla finestra e catturare tutte quelle vibrazioni espressive che celano profonde correnti di ansie e riflessioni. Noi siamo irripetibili. In ogni istante. L’istante in cui l’immagine è catturata per intuizione, è un istante di totale presenza. Anche se non conoscessimo i nomi degli oggetti avremmo comunque la sensazione che spazio, luce, ambienti e atmosfere sono fuse insieme – sintetizzate – per restituire l’umore di un dato tempo sospeso, bloccato. Poetiche tanto da rasentare il mutismo. Raccontano anche dello spostarsi leggero dell’atmosfera (intesa come aria), mentre si cammina. Davanti alle immagini ci si ferma, rendono visibile quel che resta invisibile e sottraggono ai corpi la loro potenzialità di rappresentazione. Un Tempo fermo. “Quando le cose stanno come devono stare, le narrative del senso comune non sono necessarie”, vien da sé ed è chiaro. Se il “noi” è la fonte della possibilità dell’emergere dell’io”, è possibile sostenere che l’essere emerge, accade. Nel suo accadere esprime una molteplicità di esperienze, alcune delle quali se pur nella complessità, sono il nostro essere viandanti. Quindi egoisti verso gli affetti più cari ma sinceri nell’esserci intorno a loro.
L’attimo è irripetibile
L’attimo è irripetibile. E la sua immagine non è nulla. Mai potrà, l’immagine, restituirci l’unicità di quell’attimo: irripetibili i sentimenti, i pensieri, le emozioni. Il magico incontro di sguardi che in un istante si è generato, e sciolto un attimo dopo. Noi siamo irripetibili. Una mappatura che tenta la topografia di un territorio inesplorato e difficilmente esplorabile, una zona dove diventa inutile affidarsi alle nostre certezze sensoriali. Nel dizionario italiano, tra i significati di Movimento si può trovare questa definizione: “qualsiasi fenomeno di aggregazione e mobilitazione degli individui che, a seguito di cambiamenti socio-economici, sviluppano una coscienza della propria identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per un cambiamento della propria condizione o del sistema politico stesso.” La spontaneità delle sensazioni come sorgente, il dipinto come struttura reticolare per catturarle. Ci sono due modi per superare la figurazione (cioè, insieme, l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta, oppure verso la Figura, Cézanne la chiama molto semplicemente: la sensazione.
Buon viaggio.