Presbitero, intellettuale, docente, patriota, giornalista, traduttore, ma la sua vera passione era la poesia e la poesia amorosa è una parte del suo lavoro ancora poco indagata, poco esplorata e poco goduta. Un uomo dagli interessi plurali e sfaccettati che merita di continuo di essere conosciuto e attualizzato. Ha partecipato al dibattito politico contro i regimi assolutisti.
È già da qualche tempo che come Associazione HortusAcri, anche in collaborazione con la Fondazione Padula di Acri, abbiamo in cuore di dare voce e spazio alla poesia amorosa di Padula. Di donne forti e belle e partecipi è colma la poesia di Padula, versi nei quali le figure femminili sono piene di vita di attesa e di presenza.
Una passione per la poesia e per le donne che merita di essere indagata e dibattuta. A tal fine abbiamo avviato una serie di ricerche per raccogliere questo tipo di poesie sparse in diverse delle pubblicazioni dell’autore e abbiamo in serbo di preparare una pubblicazione originale che ne dia testimonianza.
C’è una tale ricchezza e bellezza e originale e tenera sfrontatezza nei versi di questo autore e vogliamo iniziare a darne testimonianza a 130 anni dalla sua scomparsa.
Iniziamo a farlo ora da un primo commento che proviene da un amante di Padula. Abbiamo allora chiesto alcune prime riflessioni al dott. Massimo Conocchia. Non è la prima volta che porta il suo contributo su questo tema e con lui partiamo per cominciare a raccogliere testimonianze e riflessioni che confluiranno alla fine in un volume inedito dedicato alle poesie d’amore di Padula, uno scrigno che merita di essere riempito, goduto e custodito.
Buona lettura
Assunta Viteritti
La poesia amorosa di Vincenzo Padula
Massimo Conocchia
Padula è stato un grande intellettuale poliedrico, la cui attività letteraria e di studioso ha spaziato dal giornalismo, agli studi antropologici, filologici, storico-politici fino alla poesia, nel cui ambito ha potuto trattare sia quella dialettale, di particolare bellezza e vigore, sia quella in lingua. Relativamente a quest’ultima, di singolare suggestione sono le poesie amorose. Padula tratta l’amore non in maniera distaccata e platonica ma facendo percepire al lettore la bellezza e la freschezza di un amore passionale, vissuto nella sua fisicità, oseremmo dire nella sua “carnalità”. E più si va verso il “piccante”, il proibito, più la composizione ne guadagna in valore e caratura. La donna – “dell’opere d’Iddio / la femmina fu l’ultima, e però/ fu la più bella:/ di superar se stesso ebbe desio/ e tutta quanta lo sua possa oprò / d’intorno a quella…” – viene vista nella sua straordinaria bellezza e nella freschezza delle sue doti fisiche. Nei versi di alcune poesie – particolarmente ne: “Il bacio”; “I quindici anni”; Il telaio” – emerge la descrizione sublime e raffinata delle grazie femminili. Per capire la valenza particolare di questi tratti, scarsamente correlabili con l’abito talare e con una certa ortodossia cattolica che, anche in tempi a noi non lontani, ha cercato di ridimensionarne la portata, bisogna analizzare la figura di questo grande intellettuale, proprio cominciando dalla sua insofferenza per alcuni aspetti legati al suo ministero, proprio a cominciare dall’insofferenza verso il celibato, che lo accomuna certamente ad altri intellettuali suoi coevi o appena precedenti come ad esempio il Parini. Nell’intellettuale lombardo, tuttavia, questa insofferenza non sfocerà mai nell’esaltazione della passionalità tout court, come invece troveremo in Padula. Esempi “nostrani” e più estremi di rigetto verso il celibato e le sue ristrette regole, si possono trovare, senza raggiungere i livelli sublimi e raffinati dell’intellettuale acrese, qualche secolo prima in Don Domenico Piro da Aprigliano (alias Donnu Pantu), che lasciò tre raccolte di versi spinti fino a rasentare la pornografia ne “La Cazzeide”; “La Culeide” e “La Cunneide”, di per sé eloquenti fin dal titolo, nelle quali, con la freschezza e l’immediatezza del vernacolo, esaltava le bellezze dell’amore nella sua espressione più spinta. In Padula troveremo, invece, l’esaltazione poetica della bellezza fisica dell’amore senza spingersi nella volgarità, che era, invece, orgogliosamente ostentata in Donnu Pantu. Padula, in definitiva, non è stato né può essere considerato un prete ligio all’ortodossia e i tentativi di ridimensionarlo in questo alveo sono sempre falliti miseramente. Ricordiamo da giovanissimi una polemica su “Confronto” tra Carlo Maria Padula, pronipote del poeta, e il professor Giuseppe Iulia, grande studioso del Padula, che apparteneva a coloro che ne difendevano l’aderenza all’ortodossia. Carlo Maria Padula diede fuoco alla miccia pubblicando sul periodico diretto da Giuseppe Abbruzzo uno scritto privato del Poeta prozio, nel quale scriveva “Tutte le mie innamorate presentemente sono…” e seguiva una pletora di nominativi espressi solo con le iniziali. Il prof. Iulia replicò premettendo che l’amore per la polemica non albergasse nel suo animo, replicando, altresì, che la Chiesa, in quanto istituzione plurisecolare, non aveva bisogno della sua difesa e invitando, infine, l’interlocutore a non addentrarsi in polemiche e dissertazioni sul prozio per la sua scarsa conoscenza letteraria dello stesso ( cfr “Confronto” anno X, num. 7, pag.3). La cosa finì lì ma è certamente sintomatica di due visioni opposte. Aggiungasi che esiste una lettera indirizzata da Padula a un suo amico, con la quale invitava lo stesso a distruggere un suo componimento di qualche sera precedente, dedicato alla donna col più bel fondo schiena presente evidentemente in qualche festa privata cui il poeta aveva partecipato. Tutti aspetti, come si può notare, che denotano una personalità certamente non riconducibile nel ristretto ambito di un prete ortodosso e ligio di provincia. Ed è proprio questa caratteristica che gli ha permesso di tramandarci alcune delle composizioni più belle e fresche della sua notevole produzione in versi.
Un altro aspetto della vita del poeta scarsamente trattato è la malattia che probabilmente lo portò a morte. Dai sintomi che descrive in alcuni scritti (difficoltà della vista, progressiva riduzione della capacità di scrivere, disturbi della sfera motoria), lasciano pensare a una tabe dorsale, ossia una delle manifestazioni della sifilide terziaria che ai tempi del Padula ere particolarmente diffusa e con scarse possibilità terapeutiche. Insomma, una serie di dati e rilievi biografici che supportano la visione di un uomo che amava la vita in tutte le sue manifestazioni più belle. Testimonianza viva e vitale di quanto premesso, sono le tre poesie citate, che riproponiamo ai lettori per meglio rendere quanto da noi sostenuto, ovviamente senza alcuna pretesa né valenza letteraria. Ci occupiamo di altro nella vita e quanto scritto è solo il personalissimo punto di vista di un appassionato e curioso lettore, null’altro.
Il Telaio: una delle poesie più note di Padula, che si descrive nelle vesti di un acuto e appassionato osservatore privilegiato delle grazie della giovane Maria, intenta a comporre una tela. In questo componimento il poeta acrese appare anticipatore di alcuni aspetti che emergeranno maggiormente qualche anno dopo: ci riferiamo all’uso dell’onomatopeica, ossia della riproduzione grafica di alcuni suoni (“Tricche tracche tra”, ad esempio; oppure “zivè zivè colio” ne “Il cardello geloso”, altra poesia amorosa molto bella), che ritroveremo nella poesia decadente di fine Ottocento – primi Novecento e particolarmente in Guido Gozzano. Segue Testo.
Stava Maria seduta al telaretto,
Facendo risonar calcole, e spola;
Ed io, poggiato al subbio a lei rimpetto,
Così dicevo a lei solo con sola;
Quanto son vaghe quelle tue manine,
Quanto è vaga la lor mobilità!
Mani di fate, mani di regine.
Ed ella fece Tricche! Tracche! Tra!
Sembran due bianchi cumoli di neve
Che senza vento sopra i monti fiocca
Si scioglierian di perle in una lieve
Pioggia, al caldo baciar della mia bocca.
Son due bianchi colombi, onde correndo
L’uno all’incontro del compagno va.
Che batton l’ali, e becco a becco unendo,
Fanno tra loro Tricche! Tracche! Tra!
Quando ti pieghi poi, quando ti rialzi,
Come tornito quel tuo seno appare!
Palpita come spuma che ribalzi
Dall’onda crespa di commosso mare.
Piegati un poco più, piegati, o bella,
Perch’io possa mirar tanta beltà;
Sull’incude del core Amor martella
E vi fa sopra Tricche! Tracche! Tra!
Quando accordi la voce di Sirena
Al suon delle fila e dei cannelli,
Sembri una bella Maga, che incatena
Gli amanti con un fil dei suoi capelli.
Tra queste fila, ahimè! L’anima mia
Al par della tua spola or viene or va.
E vi riman presa all’armonia
Di quel tuo dolce Tricche! Tracche! Tra!
Ecco, un filo si è rotto e tu l’annodi;
Annoda il filo ancor di mia speranza;
Dimmi ancor che godi
Delle mie vampe e della mia costanza.
Annoda, o bella, col tuo cuor il mio.
Stringilo forte, e non aver pietà.
Ecco… io muoio di tema e di desio.
Ed ella fece Tricche! Tracche! Tra!
Un subbio è la mia vita, a cui s’avvolgono
Di speranze d’amor mille matasse.
Passan gli anni nemici e le disciolgono,
Né per serrare il panno io trovo casse.
Tu dipanale e lor da’ con l’arguta
Tua spola la maggior solidità;
Con le casse di poi da’ la battuta,
Facendo un doppio Tricche! Tracche! Tra!
Come danzano ben quei tuoi piedini
Intesi all’opra, senza dire un motto!
Di tue mani son essi i fratellini.
Queste giocan di sopra e quei di sotto.
Ahimè! vorrei mutarmi in pavimento
Per sentirmi sul petto or qua or là
Danzar leggero quel tuo piè di argento
E farmi un dolce Tricche! Tracche! Tra!
Tessere un’ampia tela all’infinito,
Bella, vorrei con te, solo con sola;
Saran trama i sospiri e fian l’ordito
Mille sorrisi senza una parola.
Che bella tela, che leggiadra tela,
O giovinetta mia, quella sarà!
Potrà comprarsi a lume di candela.
Ed ella fece Tricche! Tracche! Tra!
Il Bacio: qui troviamo la rivalutazione sensuale del bacio nella sua forma carnale e passionale.
Sopra le labbra sento una vampa,
Qual di rovente ferro la stampa:
Perchè son aride? Perché avvizzate?
Ah! Un bacio, un bacio m’e l’ha bruciate!
Io più non veggio: sulla pupilla
Mi è sceso un velo, che già coprilla.
Or perché cieco io diventai?
Ah! Un bacio, un bacio mi ha chiuso i rai!
Sogno e vaneggio; chi mi rimira
Sorpreso dice: Costui delira.
Povero ingegno, dove sei gito?
Ah! Un bacio, un bacio me l’ha rapito!
Stanco e di requie desideroso,
Giaccio sul letto ma non riposo;
I miei pensieri dormir non ponno.
Ah! Un bacio un bacio mi ha tolto il sonno!
Fu viperella dunque, o serpente
Colei che morseti con aspro dente?
Ahi! Non fu serpe, non viperella,
Ma il bacio, il bacio di una donzella…
I quindici anni: in quest’ultima riproposizione, c’è la descrizione di un’adolescenza che affiora prepotentemente nel ritratto di una giovane fanciulla, di cui descrive, senza veli ma con eleganza, i turbamenti tipici di quella stagione esistenziale.
Già tien quindici anni la vaga fanciulla,
Né più del giardino coi fior si trastulla;
Le piacciono i preti, va sempre alla messa,
Abbassa gli sguardi, tien curve le spalle;
Compone altarini, ogni di si confessa,
Ricerca i silenzi di luogo romito,
Sospira il marito, sospira il marito.
Togliendosi al desco, va subito a letto,
E tosto sen leva col pallido aspetto.
S’alcuno la chiama, talora non sente,
talor non capisce, talor non risponde,
Com’altro pensiero le andasse per mente,
Del quale s’inebria, e che a tutti nasconde.
Ha sonno brevissimo, tien poco appetito,
Sospira il marito, sospira il marito.
Se affetta una frutta le dita si taglia;
Se tesse la calza, le scappa la maglia;
Se sorge, pendenti sui fianchi ha le mani;
Se guarda, annebbiata le appar la pupilla;
Se va, spinge i passi ora presti, ora piani,
Or senza ragione sta mesta, or tranquilla.
Fa mille ricami ma niuno è finito:
Sospira il marito, sospira il marito.
Si ferma allo specchio, e in quel lucido vetro
Osserva se fatta sia bene di dietro;
E fuor, della lingua spingendo la punta,
Qual dardo di fuoco la vibra e dimena.
Poi torna a guardarsi, ed un lieve le spunta
Sorriso che agli occhi le guizza e balena;
Il naso si gratta sovente col dito,
e mette un sospiro, che vuole il marito.