L’emergenza sanitaria, a carattere pandemico, ormai da diciotto mesi sta sconvolgendo e riplasmando – forse anche con effetto disbrogliante – quella che era considerata la normalità e che sarebbe più corretto definire quotidianità.
Quotidianità che aveva dato evidentissime prove di insostenibilità sotto i più diversi profili e su tutti, in visione prospettica, la questione giovanile: questione, forse, ancora affrontata – quando affrontata – non nella maniera più corretta.
Una panoramica su quella che è la situazione attuale può essere utile per proseguire con un discorso maggiormente articolato.
NEET – Not in Education, Employment or Training
L’indicatore NEET, atto a individuare la quota di popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni che “non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione” (Treccani), è stato introdotto nello spazio europeo ormai da oltre un decennio.
Dal 2010 l’Italia mantiene – saldamente – il record negativo di persone di età compresa tra i 15 e i 29 che non hanno un lavoro (dichiarato, non è considerato infatti il lavoro nero: gulp), né stabile né precario, e non frequentano alcun tipo di percorso formativo.
Il dato italiano, già il peggiore nei periodi di relativa ordinarietà, non è di certo migliorato in questi ultimi scombussolati diciotto mesi. Anzi, è peggiorato: le statistiche Eurostat, aggiornate a fine 2020, lo confermano.
La quota di popolazione NEET in Italia è aumentata di almeno un punto percentuale: dal 22,1% al 23,3%, oltre 10 punti sopra la media dell’Unione Europea (13,7%), numericamente si tratta di oltre 2 milioni di giovani, 1 su 4.
Scorporando il dato si possono fare due considerazioni tristemente scontate:
– a soffrire in misura maggiore nella condizione di NEET sono le donne;
– a livello geografico si riscopre un’Italia a tre velocità: le regioni settentrionali sono grossomodo allineate alla media europea, quelle centrali se ne distaccano ma non troppo, quelle meridionali chiudono la classifica, addirittura in alcuni casi doppiando la media europea (i dati peggiori in Sicilia e Calabria).
Non studio e non lavoro perché anche se studio e lavoro…
Il fenomeno NEET si basa su un’insicurezza di fondo tanto sulle condizioni contingenti che sulle prospettive future. Da ciò un’eccessiva cautela e un’inerzia che inibiscono la spinta propulsiva di ognuno e tirano i freni della scala mobile sociale. Si avverte, infatti, che anche studiando e/o lavorando le difficoltà sono tante e insuperabili.
La domanda che risuona è sempre la stessa di quella della canzone Io sto bene degli CCCP: è una questione di qualità o di formalità?
Anche per questo il fenomeno NEET man mano va spostandosi anche su altre fasce d’età in precedenza non considerate, incidendo così su più generazioni.
La diffusione del Sars-CoV-2 non ha di certo aiutato. Ma la situazione non era già in precedenza la migliore possibile: scarsi investimenti nell’istruzione e nella ricerca e nella digitalizzazione, aumento della dispersione scolastica (in Italia, al 2020,il tasso di abbandono degli studi nella popolazione tra i 18 e i 24 anni è al 13,1%, 10,1% la media europea) e della demotivazione degli studenti, “il doloroso andarsene degli scienziati italiani” (Antonio Pignedoli, fisico eletto in AC, seduta del 22.04.1947), poche garanzie e diritti a livello lavorativo e tanto lavoro nero e sommerso, salari spesso indegni (tanto nel rapporto con la pubblica amministrazione che in quello con i privati): il tasso di occupazione nella fascia d’età 18-24 anni è ulteriormente calato nel 2020: dal 35,4% del 2019 al 33,2%.
Le cause di questo sfavorevole contesto sono sicuramente tante e non sono riducibili ad unicità: l’insicurezza in primis ma anche la sua controfaccia, l’abitudine alla comodità. E tra queste variabili vi sono chiaramente le scelte politiche sulle quali è scarsa, spesso irrilevante, la voce dei ‘giovani’.