partire per studiare …
Sono partita da Cagliari quando avevo vent’anni anni per inseguire un sogno: studiare Design. Erano gli anni ’80, noi giovani vivevamo con la certezza che ognuno potesse costruirsi il futuro che desiderava, a dispetto delle possibilità economiche della famiglia di origine. Col nostro impegno e talento potevamo cambiare tutto. L’energia inesauribile di quell’età mi ha permesso di poter studiare all’Isia di Firenze con soddisfazione e lavorare per potermi mantenere. Andavo a lezione, preparavo gli esami e facevo i lavori più disparati, passando dalle ripetizioni di matematica alle pulizie: mi bastava che fossero lavori onesti e retribuiti. Mi rendevo conto che la necessità di guadagnarmi da vivere mi impediva di investire il mio tempo in qualcosa che potesse avere a che fare col mio sogno futuro, per me partecipare gratuitamente a corsi, mostre o meeting era un lusso impossibile. Ma il sogno era grande, e pensavo che il talento, l’impegno, magari un pizzico di fortuna, avrebbero potuto portare i loro frutti a tempo debito. Mi sono buttata con gioia nei primi lavori di progettazione nell’area dell’arredamento del Pistoiese, a quei tempi viva e presente, ma nel giro di due, tre anni, la storia economica dell’Italia intera cominciava a cambiare, e i piccoli produttori chiudevano via via le loro attività. Presi in corsa il treno della Grande Distribuzione, settore “arredamento-fai da te”, nel Pratese, impegnandomi al massimo, finalmente con un contratto di lavoro regolare e una possibile carriera. Sono stati anni in cui ho imparato veramente una professione. Lavoravo fino a quattordici ore al giorno, davo tutto ciò che ero e ciò che sapevo.
Ho dovuto arrestare il percorso ma non ho rinunciato ai sogni
Purtroppo in quegli anni ho avuto un serio problema di salute che avrebbe poi condizionato tutto il mio futuro. Le energie per dare il massimo non c’erano più, la famiglia lontana non poteva sostenermi in nessun modo, e in quel momento pensai seriamente di dover tornare dai miei.
Ma tornare a casa per me equivaleva a rinunciare al mio sogno.
L’ho ri-progettato e sono rimasta in Toscana. Continuo a lavorare in Grande Distribuzione al Servizio Clienti, le forze fisiche per allestire i reparti e giocare con forme e colori sono un ricordo.
Fin qui potrebbe sembrare “una storia triste”, ma non lo è, tutt’altro.
La malattia porta con sé una crescita inaspettata, soprattutto quando si affronta da soli, senza il sostegno della rete familiare. Si ribaltano le priorità, si impara ad accettare i propri limiti, a sviluppare con creatività ciò che è rimasto intatto.
Ho una predisposizione naturale a trasmettere le mie competenze, prendo a cuore tutti i giovani lavoratori-studenti (sono tantissimi), con altri colleghi abbiamo fondato una Associazione Culturale dove ognuno fa ciò che sa fare meglio (scrivere, fare musica, dipingere, organizzare eventi), i cui proventi vengono destinati ai colleghi che per motivi di salute perdono la retribuzione dopo i canonici sei mesi di malattia (che spesso non bastano per guarire da pesanti patologie). Metto a frutto i miei talenti e le mie competenze con una nuova consapevolezza e un rinnovato senso di comunità.
In questo terribile momento di pandemia ho la fortuna di avere un posto di lavoro sufficientemente sicuro, cosa per niente scontata. Con la maturità anche i legami con le mie radici sono stati rafforzati, emerge una “sardità” sempre più forte.
Sogno un giorno di poter tornare nella mia Terra, portare con me ciò tutto ciò che sono diventata e che ho imparato.
Guardando nuovamente il mare.